Riflessioni e interventi teorici

La "porta della femmina oscura"

Un luogo è a un primo momento un richiamo, a volte oscuro, profondo. Il Tao Te King, uno dei testi classici cinesi, accenna allo “spirito della valle” e ne parla come di “porta della femmina oscura”. Il luogo viene così a coincidere con una sorta di ‘Lei-luogo’ che impronta, come loro matrice, acque, pietre, carattere degli abitanti. Questo aspetto passivo, generativo, ha il suo complemento nel risalto luminoso delle cose che vengono portate alla luce, e della parola che le traspone in visione. Tra la parola e il luogo si instaura così un rapporto di ascolto. Ascolto equivale a intendere le potenzialità che la parola è in grado di evocare dal luogo, mentre il luogo si pone allora come ‘origine’ della parola. Consiste in una modalità di comprendere la parola nel luogo, come se per la poesia non vi fossero altre possibilità che di situarsi in un luogo. La parola, nei confronti del luogo, si mantiene come nello stretto rapporto tra ‘rivelazione’ e ciò che si rivela, che non è sdoppiamento, ma una sorta di sigillo di unicità e di unità di tutte le cose presenti. Il luogo è unito in se stesso. Tuttavia non risulta immediatamente, come invece l’evidenza di una certa varietà che si offre allo sguardo; di una compresenza di tratti, di una sovrapposizione di piani tra il vicino e il lontano; di una congerie che comprende ogni sorta di aspetti, formazioni, acque, rocce, piante. A trarne in luce la presenza come un tutt’uno con le sue potenzialità di trasformazione è invece la parola.

Una prospettiva sulla pittura dal medium verbale

Di risultato artistico si può parlare in quanto procedimento: graduale estrinsecazione di potenzialità, materiali e immateriali, colte nel farsi concreto del linguaggio; fare che giustifica i parallelismi tra ogni forma d’arte e l’altra al di là dei diversi mezzi. Problema riguardante la natura dell’atto creativo in generale da cui non può a priori escludersi la possibilità che nel laboratorio della parola poetica si giunga a scorgere la matrice di una pratica che pittura, superficie, segno arrivano a esprimere in altro modo. Occorrerebbe parlare quindi di un campo che l’artista elegge a modello per il risultato: l’opera. Tale comunque in quanto frutto di mutamenti, coincidenza sperimentale tra qualcosa di presentito, comunque solo plausibile fintanto che non è realizzato, e ciò che viene a determinarsi come forma effettiva. Operazione non sempre prevedibile o destinata a seguire la corrente dell’intenzionalità esplicita, come in fondo intuisce chi tiene conto di quella sorta di deriva del materiale di partenza, immanente alla direzione di avvio, che si manifesta talvolta solo a cose fatte. E per proseguire il paragone, si potrebbe citare l’aspetto della poesia che gli antichi (e Leopardi) indicavano come invenzione e che si potrebbe benissimo modernizzare, e adattare ai vari ambiti espressivi, con il termine reperto. Ogni artista ha un repertorio di oggetti, colori, forme, immagini, oppure di parole e di suoni: dei reperti che gli capita di scoprire nelle cose, o più solitamente di ricavare da se stesso, su cui intervenire, a volte per cancellarne l’identità e ritrovarne così il prototipo. Il senso di questa operazione non mi pare differire in poesia o in pittura. Terzo e ultimo spunto: la forma. La parola non manca di evidenza plastica. Non si può che attribuirle un’eco, una provenienza: in definitiva uno spazio. Ho scritto altrove: dire è un’azione – se è un’azione avrà un’ampiezza: motivo per cui acquisisce tale risonanza un incipit come quello dei versi di Pindaro “Come quando il solido atrio di un tempio/elevando il maestoso edificio affidiamo a colonne dorate: al principio dell’opera/ occorre porre una fronte che irraggi lontano”. In ciò la poesia raggiunge il colore dissolvendo il verso in musicalità. Al contrario in pittura è il colore l’elemento immediato, sensazione fisica al di là del valore psichico o simbolico che può assumere, a doversi trasporre in qualcosa che l’organizzi. Questo medium è la forma. Per arrivare a notare infine che la forma non è se non il significato dell’opera: significato totale che l’abbraccia in poesia, in pittura o in qualsiasi altro specifico artistico.

Milano, maggio 2008

In forma di autopresentazione

Complicazioni di percorso

Comprendo il sentimento di chi trova difficili i miei testi: anzi ne sperimento io stesso il faticoso, a volte estenuante impegno. Capisco che il più delle volte, lungi dall’essere una critica, è piuttosto la constatazione dell’obiettiva complessità di una costruzione a-sintattica, come qualcuno ha colto in particolare in alcuni testi della raccolta L’oro e il fuoco pubblicata da Scheiwiller nel 1995. Questa definizione, a mio avviso esatta, ne accredita l’implicita tendenza a un’espressione formulare di stampo omerico, che dev’essere certamente avvertita come una ripresa estranea al gusto e alla linea della lirica moderna. Vorrei tuttavia dare rassicurazioni su questo: è stato anzi il Simbolismo francese a spingermi inizialmente sulla strada di più audaci sperimentalismi. Prova ne è per esempio il fatto di essermi trovato, con alcune composizioni datate intorno ai miei 23-24 anni (verso il 1983-1984), a dare veste a risonanze francesi nel ritmo e nel tipo di musicalità che avevo in mente e quindi a informare l’italiano di un senso e di un’impronta strutturale ad esso non corrispondenti. Stavo forse dando concretezza alla teoria del pensiero-suono saussuriano, ma certo aprendo involontariamente anche vasti campi d’interrogazione intorno ai temi della traduzione. Nonostante la mancanza di un punto di riferimento verbale, si trattava pur sempre del problema di una trascrizione da un sistema fonosimbolico piuttosto differente e l’unico modo per risolverlo era passare attraverso una matrice comune: il latino; o meglio attraverso l’idea di sonorità della lingua latina. Per lungo tempo non mi sono preoccupato di darmi ragione di questo passaggio messo in atto quasi inconsciamente, finché qualcuno, sentitomi una volta recitare uno di quei testi, finì per esclamare: “ma questo è Catullo!”. In realtà non Catullo, ma il modello di un melos neoterico che, a mio avviso, risuona a momenti anche in Rimbaud. Comunque il passo iniziale per una destrutturazione dei gangli sintattici era già venuto a compiersi allora, con versi come “vedresti se c’è mai chi il tempo tu l’avresti eluso, ecc.”. Venivo così a forgiarmi gli strumenti con cui avrei poi affrontato un successivo itinerario attraverso il mito, il pensiero presocratico, le civiltà più antiche (Mesopotamici, Egizi, il Taoismo, gli inni vedici, ecc.), approfondito anche sotto forma di riflessioni e analisi. Ulteriori premesse gettate in seguito, a consolidamento di un percorso già implicito in quegli anni. Era quello il periodo in cui è stata altrettanto importante, per la mia pratica teorica e poetica, la messa in questione delle categorie nominali e verbali, anche in questo caso attraverso la mediazione di una lingua “altra”: il greco antico, dei cui risvolti concettuali, tramite letture, mi si erano chiarite per esempio le valenze correlativo oggettive di alcuni vocaboli. Ebbi così modo di costruire un testo inteso come un autentico atto di ri-fondazione del mito pitico alla luce delle istanze della poesia contemporanea (il correlativo alla T. S. Eliot, appunto). 

Questo giusto per dare qualche sommaria indicazione del tipo di esercizio formale all’origine di una raccolta come L’oro e il fuoco, il cui frutto più cospicuo, dal mio punto di vista, è stata però la scoperta di come utilizzare le parole come chiavi timbrico-notazionali, modo senz’altro più congeniale alla musica, ma che mi permetteva di conferire un senso di ancora maggiore unità alla composizione attraverso l’amplificazione ritmico-uditiva. In effetti alcuni di quei brani erano stati concepiti apposta per la recitazione orale. L’aspirazione performativa si è anzi rivelata la chiave di un processo di completa ristrutturazione/rifusione del materiale di partenza, ridefinito (al termine di un lavoro che mi ha impegnato anche oltre un intero anno su un singolo testo) in funzione degli esiti, formali ma anche contenutistici, che volevo ottenere. Da queste scelte tecniche dipendono possibilità espressive e anche limiti, verbali e concettuali, che mi sono imposto di forzare, pur di riuscire a tenere insieme l’inconciliabile. In una poesia come “Neppure più l’apertura notte, ecc.”, l’enunciato parmenideo, cui si è trattato di piegare il costrutto per farne insieme veicolo e rispecchiamento, sostanziandone la visione intuitiva, corrisponde a un’apertura al massimo grado di comprensione degli opposti: è il segreto strappato al fuoco del pensiero presocratico, frutto peraltro di un procedimento filosofico, per paradossi e rovesciamenti, importante per la mia formazione culturale. L’abitudine agli enigmi mi ha in qualche modo aiutato, se non a risolverli, per lo meno a chiarirli e il chiarimento consiste nel raggiungere la maggiore precisazione possibile di un indeterminato, parola in vivente equilibrio tra poli di significazione in continua oscillazione. E’ il prodotto di un procedere per livelli di progressiva astrazione, punto stabile e conclusivo del travaso dei significati che passa per la perdita di riferimenti, il continuo depistaggio, nel corso di un’epoché causa di problemi di coerenza intrinseca della direzione di senso da imprimere. Il nodo da sciogliere, anche attraverso ripetuti passaggi ermeneutici, è quello di un materiale verbale eterogeneo, ma già organizzato in spontanee strutture nucleari, inizialmente irrelate nella propria univocità auto-referenziale. Mentre s’impongono così in una totale autonomia e auto-evidenza di cui pretendono per sé il riconoscimento, in ciò che sembra talora riferirle a una supposta realtà fondata sul già detto, parrebbero d’altra parte inscrivere tracce autobiografiche, probabilmente ripescate dal sedimento di situazioni vissute, su cui poi s’innestano ulteriori variazioni di piano legate alla memoria. Connesse al ripetersi di analoghe esperienze, ritornano così magari in attimi d’ispirazione che soltanto ingenuamente potrei tuttavia attribuirmi in ragione di un’esclusiva di personale paternità e originalità: ne colgo piuttosto il frutto di correnti di significazioni che ci avviluppano, continua proliferazione dell’autentico anonimo che ci circonda da ogni parte. Mi si rivela in una sorta di coralità che prende corpo tra la folla, in inspiegabili momenti di condivisione emotiva, che leggo dagli sguardi dei passanti, di ciò che vado annotando durante lunghe passeggiate, specie di comunicazione non verbale che passa per canali sotterranei. Può benissimo darsi che sia io a illudermi nel vedere in questo il riflesso di un intuito comune, indizio di un’unica e universale intelligenza cosmica: potrebbe invece dipendere soltanto dall’impressione prodotta negli altri dal mio apparire tanto concentrato, incomprensibilmente assorto in quel genere d’attività che rappresenta già una prima fase di raccolta. Sono momenti in cui la mente vaga senza nulla di particolare su cui soffermarsi, ma in realtà attenta a registrare ogni minima alterazione in un flusso di onniavvolgente energia. 

Dall’irrompere improvviso di forze capricciose, imprevedibili, scaturisce la sintesi che si condensa nel frammento. Il vero lavoro però comincia dopo, quando quegli straordinari reperti di vita in progress passano al vaglio analitico per consentirne la restituzione di un senso; un senso peraltro già iscritto nella personalità poetante come metro e misura (e sede anche biofisica) di ogni possibile ricomposizione. In altri termini, è il fatto stesso di trovarli disseminati come disiecta membra da riunire in unità coerente, a sostanziare lo scopo di un progetto al quale pure questo medesimo materiale sembra riluttante, esibendo proprie intrinseche affinità e valenze combinatorie. Talora, di fronte a queste tendenze istintivamente aggregative, o in altri casi di reciproca esclusione e antipatia, si tratta di agire con risolutezza e tenacia, persino con una certa astuzia nell’escogitare sotterfugi di ogni genere per evitare le insidie del percorso e riuscire così, infine, a imporre un collegamento che tuttavia, una volta trovato, appare un incastro definito e irremovibile. Le parole, evidentemente ignare della direzione cui si vorrebbe avviarle, si prestano con diffidenza a questo genere di escamotages in cui è in gioco ciò che mai avrebbero pensato di esprimere. Ricomposte nel nuovo spazio organico in cui risulta l’unità del verso, e del testo, acquisiscono la fluidità necessaria a ritrovarne l’armonica percezione elastica, e con questo un’articolazione inedita dei significati che ne risolve i contrasti, riportandoli al tutto cui appartengono come movimenti originariamente spontanei della lingua. E’ il risultato di un processo cui si riferisce un’osservazione contenuta in un precedente appunto, condensato di tante riflessioni annotate nel corso degli anni (e ancora, per lo più, ignote al pubblico), che sento giunto il momento di tirare fuori, a guisa di auto-citazione, per offrirne un’inquadratura olistica: 

"Dire è superare la forma; ma la forma delle forme non è pronunciabile? Superare è inverare la forma; la parola è la verità della forma, essa è in grado quindi di assorbire in sé la forma inverandola. Ma come forma la parola può essere essa stessa inverata. La parola che pronuncia la verità della parola la porta a esaurirsi perché ne racchiude la verità entro la forma. La verità della forma così svuotata viene riassorbita nella verità senza forma della verità, che fa capo a un principio al di là della forma, ossia della parola”. 

Nota: il presente intervento è stato pubblicato nello speciale, a cura di Beppe Mariano, Poesia contemporanea. Ricognizioni e proposte del n. 10/2014 della rivista In limine (www.inlimine.it/ojs/index.php/in_limine/article/view/329), diretta da Fabio Pierangeli (Università di Roma Tor Vergata) e Roberto Morena (Università per stranieri di Perugia), ripubblicato come supplemento della prestigiosa rivista brasiliana Mosaico.

L'uranico Fontana

Attesa e azione sono termini opposti. Nell’attesa è implicito il senso di un “volgere a qualcosa” che conserva l’accezione di quel volgimento interiore che per i Medievali costituiva l’atto di una conversione. Per Fontana è attesa, dunque non più azione come per il Faust di Goethe, ma aspettativa di un “mirare a” che diventa “ammirare”; e l’ammirazione richiama nel profondo della figurazione: è fascino e folgorazione che attesta il sigillo di un fatale arrestarsi. E non a caso: i “tagli” delle “Attese” appartengono all’ultimo ciclo dell’artista, quello degli anni ’60, poco prima che Fontana scomparisse, nel 1968.
L’attesa è assenza di un evento, perché l’evento non è anticipabile: l’attesa ne è piuttosto la gestazione che può solamente prepararsi, e la preparazione conduce attraverso tutti gli stadi e i livelli della prefigurazione oltre il visibile e il dicibile. Di questa attesa Fontana ha preparato il terreno, con i mezzi propri dell’arte, liberandola da ogni residuo della tradizione plastica e figurativa, in un esito conclusivo che va oltre lo spazio: oltre la definizione formale e concettuale di “spazialismo”. Fontana è già passato prima attraverso lo Spazialismo per offrirne tutta l’estensione di una possibile accezione di senso. Fatto ciò può infine liberarsi dell’impaccio della figurazione per “sfondare” in profondità la superficie, aprirla a una dimensione che non è più di contatto, di avvolgenza plastica, perché è “passaggio”, apertura al tempo. L’attesa è però il contrario del tempo durativo dell’azione: si situa in un momento, in un punto primordiale e originario, che resta sospeso, indeterminato. E’ un “taglio-tempo”, miticamente riconducibile al punto d’intersezione nell’avvicendamento generazionale tra il padre Urano e il figlio Crono. Questo ciclo delle “Attese” si rivela, dunque, un ripercorrere gli “inizi” teogonici del mondo che si riverberano nel “taglio” come la lama del falcetto che la mano di Crono vibra velocemente per troncare l’esuberante fertilità e potenza generativa del cielo: il “taglio” ha questo senso primario di una mutilazione. A questa originaria separazione si è ispirata la “musa” di Fontana; il resto è storia dei nostri giorni, all’insegna del dominio di Crono dai “pensieri tortuosi”, duro e spregiudicato nei suoi propositi rivolti al guadagno. Peraltro non è l’impronta di un genuino piacere del contatto e dell’avvolgenza che si riconosce in tutto il lavoro di Fontana – e, secondo coloro che l’hanno conosciuto, nella sua stessa personalità umana?
L’avvolgenza: un tratto quasi caratteriale che si riconosce nell’opera come piacere della superficie; come, nell’amplesso primordiale, il cielo abbraccia e avvolge la terra.
Diventa chiaro a questo punto che Fontana non ha solo seguito il modello generazionale e teogonico: ne ha addirittura personificato il “destino” fino al “taglio” in cui l’uomo giunge al culmine dell’identificazione personale con la vicenda del dio. Qui siamo al di là della narrazione, che da questo momento in poi comincia ad apparire dominio della quotidianità, svolgimento concreto sotto i nostri occhi. E’ il compimento di una situazione prefigurata dal mito, nella dimensione di una “mitologia in atto” che è anche fatalità di superamento dell’uomo che ha raggiunto il divino, secondo quell’annuncio nietzscheiano dell’«Übermensch», portavoce della suprema “verità” dell’eterno ritorno. Quante apologie della quotidianità hanno intessuto il filo della cronistoria artistica da Lucio Fontana ai nostri giorni?
Ma che cos’è il quotidiano se non mito che si iscrive giorno per giorno in segni, che presuppongono solo l’occhio in grado di coglierli e di tradurli nel filo di un racconto da tramandare?
L’Angelo dello Zarathustra si esprime con queste parole, senza essere ancora compreso dai suoi occasionali, interdetti spettatori, essendo appena comparso nel firmamento delle “occasioni” che l’Occidente non riesce a cogliere, perché è un mondo che deve volgere a detrimento – proprio o altrui – ogni eccesso di realtà. Per Fontana si può forse parlare di “occasioni” solo fino al momento della sua biografia artistica che coincide con la contemporanea cronologia montaliana. Non è forse un parallelo tutto da percorrere, tutto da scoprire? Eppure non vi si scorge un’atmosfera comune già a partire dai titoli? Tra le “Attese” di Fontana e la “Satura” di Montale non si ha l’impressione di un colloquio che si svolge per segreti accenni e intese? Lasciamo comunque da parte la questione, poiché anche per Montale tra le Occasioni e Satura intercorrono più di vent’anni; e sono anni che per Fontana culminano nelle “Attese” e nell’intermezzo del ciclo “La fine di Dio”. E’ la fine perché l’uranico Fontana è costretto a rivelare nelle tracce iscritte all’interno dei suoi ovoidi la discendenza tellurica, a riconoscerla nella sua cerchia più stretta di frequentatori e amici artisti: Valentini, Spagnulo…

Il labirinto e lo Yin e Yang

La proprietà del linguaggio che ne fa specchio del mondo, del nostro modo di comprendere le cose che, a livello analogico, si manifesta nel fatto di coglierne le somiglianze, è anche la possibilità di intenderne invece, dal punto di vista logico, la distinzione, l’opposizione reciproca per cui il significato di qualcosa, di qualunque cosa, viene a costituirsi attraverso il proprio opposto. La natura dialettica che porta ad abbracciarle insieme come aspetti interdipendenti di una relazione polare del tutto imprescindibile, è anche la traccia del loro evolversi reciprocamente; il filo conduttore che permette di passare dall’una all’altra e che le mantiene in movimento dinamico, in perenne oscillazione fra un estremo e l’altro. E’ il riconoscimento eracliteo per cui il dio è “notte e giorno, pace e guerra, fame e sazietà” che riprende il detto di Anassimandro per cui ogni cosa si rende giustizia l’un l’altra “secondo l’ordine del tempo”: lo stesso che porta Laotzi ad affermare “chi riconosce il bello come bello, ammette il brutto”. Il versante della questione che interessa i Presocratici appare però, piuttosto, il motivo dell’alternanza, del tempo come necessità di scambio, di inversione di polarità che porta continuamente da una cosa all’altra. E’ uno schema che ricalca il labirinto, sintesi di una duplicità di movimenti contrapposti che si compenetrano e si completano a vicenda. L’analogia si mantiene sul piano dell’inversione, come processo che prevede punti di svolta in entrambe le direzioni, il cui senso è però rovesciato. In nessun modo si tratta tuttavia di un disegno simmetrico negli elementi intrinsecamente costitutivi: viene dunque meno l’aspetto speculare che porterebbe semplicemente a permutarli, a considerarli interscambiabili. In chiave temporale se ne potrebbe quindi indicare il moto asincrono, oppure di un’eventuale sincronizzazione tra movimenti da compiere a velocità relative diverse. In ogni caso lo spazio percorso prima in una direzione poi nell’altra non sembra presupporre gli stessi tempi di percorrenza: a meno che i due segmenti non abbiano effettivamente la stessa lunghezza e solo il modo in cui si “aggomitolano” su sé stessi li faccia percepire disuguali. Al di là se commensurabili o meno, il problema comunque di una via “lunga” e di una via “abbreviata” si direbbe quello della possibilità del ritorno (Kafka lo descrive come una sorta di paradosso temporale in un racconto intitolato “Il medico condotto”) ed è lo stesso che obbliga Odisseo a prendere la strada più tortuosa per evitare altri pericoli insuperabili. Ad ogni modo il percorso di “andata” e quello che conduce a ritornare si direbbero non coincidere: d’altra parte, si perverrebbe altrimenti ogni volta di nuovo soltanto al punto di partenza. Questo è però quello che avviene a livello di costruzione della figura: non dal punto di vista di chi si trova a percorrere il labirinto che può uscirne soltanto dalla via da dove è entrato. Aspetto che sembra davvero alludere alla compresenza di tre piani, come altrettanti “spazi” topologici di significato peraltro cosmologico: a mostrare un’entrata e un’uscita è solo il livello mediano, “interstiziale”, quello compreso fra le linee della costruzione; piano intermedio ma anche “terrestre” nel senso di corrispondente alle possibilità concrete di vita degli uomini (mentre gli altri due sono livelli cosmici, oltre la dimensione della vita terrena di cui definiscono i limiti, superiore e inferiore, entro cui essa si svolge e ha senso). Insomma, il labirinto è una realtà intrinsecamente umana, sia pure percepita nella forma di un’esperienza mitica, ma che proprio per questo è in grado di fornire lo spunto al “logos” eracliteo  per farne un’espressione di carattere universale, una premessa razionale del linguaggio. All’uomo, in questa chiave di discorso, spetta il riconoscimento della polarità costitutiva delle cose entro cui mantenersi tramite fra le une e le altre in costante dialettica, assicurandosi così il ritorno come possibilità al tempo stesso di continuare a vivere.
La difficoltà del labirinto si presenta non appena si tenta di tracciarlo sul foglio. Disegnare un labirinto di tipo cretese non è semplice. La complicazione dipende dall’intreccio che esso genera come sviluppo di un doppio movimento alterno. Si tratta quindi prima di analizzarlo, individuando e eseguendo separatamente ciascuno dei due tratti per poi riuscire a combinarli insieme in modo da riprodurre la figura per intero. Appare subito evidente che i due segmenti del percorso labirintico non rappresentano lo stesso movimento semplicemente invertito. Altrimenti si potrebbe, per ipotesi, tentare di riprodurli contemporaneamente: cosa impossibile, a meno di non essere ambidestri. Si dovrebbe in tal caso, però, disegnare i due tratti separatamente su due fogli; come anche sarebbero necessari due fogli pensando per esempio di utilizzare una matita a due punte fatta opportunamente ruotare su due piani diversi, l’uno collocato sotto e l’altro sopra: il risultato non sarebbe comunque, naturalmente, un labirinto completo, ma si sarebbe almeno in grado di ottenere una rappresentazione simultanea di entrambi i movimenti.
La difficoltà di sincronizzarli non è un problema puramente grafico, ma illustra l’alternanza di due tempi che arrivano a compiersi soltanto in successione: prima l’uno, poi l’altro, come, appunto, una “andata” e un “ritorno”. Tuttavia qual è l’andata e qual è il ritorno? Di fronte alla figura da disegnare posso decidere arbitrariamente quale verso tracciare per primo. Se si tratta quindi di un’andata e di un ritorno, dipende dal punto in cui mi trovo a partire. Potrei, per esempio, cominciare con un tratto procedente prima in senso orario che poi si rovescia in senso antiorario, oppure viceversa: questione affidata unicamente al tipo d’orientamento personale. Ma non è l’unica. Una volta “appresa” la figura, quando cioè si è arrivati a disegnarla scorporandone dapprima i singoli elementi per poi riunirli, si scopre infine che si tratta di un tracciato unico: che la mia operazione è stata comunque una scelta arbitraria di come arrivare a completare il percorso. Il problema del labirinto è che non si può disegnarlo senza averne sotto gli occhi il modello; e il modello è una figura intera, sia pure composta da due distinti tracciati che s’intrecciano.
L’unico approccio che appare possibile, coincidente peraltro con la “soluzione” del labirinto, è allora quello di chi si trova a percorrerlo dall’interno fino al centro, per ritornare sui suoi passi e trovarvi così l’uscita, che è la stessa via da cui è entrato. E’ l’unico, perché il suo moto segue quello apparentemente elementare di una spirale. Supponendo che il suo movimento sia anche quello che traccia contemporaneamente il disegno, questo verrebbe a comporsi in simultanea nel momento di compiere il percorso, e questo prospetta un’interessante osservazione: propriamente il labirinto “non esiste” indipendentemente da chi, ritrovandosi al suo interno, arriva a completarne il tracciato. Non esiste; o meglio esiste sì, ma soltanto come “figura”, come un gioco grafico astratto. Se invece si procede dal punto di vista di chi lo “vive”, ecco che il labirinto si “anima”, giunge a prendere consistenza o, per così dire, “coscienza” di sé: coscienza, naturalmente, labirintica che appare sul doppio versante di chi lo attraversa e della figura che nello stesso momento sorge e si manifesta. Sorge e si manifesta come una complicazione del percorso: di una via non lineare, curva e alternante, pensabile soltanto in sintonia con l’espressione evangelica “solo chi imparerà a fare le cose della mano destra come quelle della sinistra, e quelle della mano sinistra come quelle della destra, conoscerà il regno”. Questo genere di interscambiabilità non è forse lo stesso problema della sincronizzazione dei due sensi del tracciato labirintico? Perché è un problema? Per via della figura dell’intero che viene a comporre: risultato della totalità del tempo come interazione di singoli momenti parziali in continuo avvicendamento. Se però il labirinto indica questo tipo d’alternanza temporale si può allora considerarlo come sintesi schematica degli stessi concetti cinesi di yin e yang che infatti non definiscono altro che questo genere di alternanza fra un tempo e un altro. Se è così il motivo del labirinto si può comprendere come una variante del Tai-Chi, il simbolo dell’unità degli opposti che, nel suo perenne rovesciamento (o rimescolamento), esprime il Tao, la conformità al tutto.
L’idea che fra Tai-Chi e labirinto vi siano elementi di un’origine comune, se non costituiscono d’altronde un identico sistema di rappresentazione, si coglie alla luce di un’equivalente concezione del tempo: di un tempo caratterizzato dall’alternanza di due fasi o aspetti cronologici salienti, ciascuno connotato da una propria direzione e dunque da un proprio “senso” sul piano cosmologico degli eventi. Ipotesi da verificare nel confronto fra pensiero cinese e eventuali analogie presenti nella raffigurazione labirintica. Un simile confronto porterebbe forse addirittura a concludere che nei meandri labirintici si nascondono i tratti ciclici di un oracolo-calendario come l’I Ching, messo a punto, secondo la tradizione, intorno all’XI sec. a. C. dai Cinesi, dai quali è utilizzato tuttora nella pratica della consultazione. Indizi su questa via si colgono anzitutto nel Tai-Chi come simbolo ciclico, espressione di un’unità articolata in due parti in continua rotazione in modo da alludere al reciproco e perpetuo rimescolarsi e succedersi proprio di qualsiasi fenomeno che si alterna regolarmente, come per esempio la luce e l’ombra, il giorno e la notte.
Analoga appare la simbologia del Tai-Chi in rapporto al labirinto proprio per il tipo di costruzione, in entrambi risultato di moti contrapposti. E d’altra parte, per quanto riguarda il labirinto e l’I Ching, basato sulla stessa comprensione di due “tempi” concepiti in modo tale da portare appunto  lo yin e lo yang ad alternarsi, si può senz’altro indicare almeno una corrispondenza numerica, dal momento che il disegno labirintico presenta 7 “anse” o punti di svolta e che il settimo giorno è citato dal “Classico dei mutamenti” come quello del “ritorno” (esagramma 24) della forza chiara (yang), che rientra da sotto, dalla linea iniziale, dopo che l’esagramma precedente (23, “Lo sgretolamento”, secondo la versione del Wilhelm) la mostrava vacillare pericolosamente all’apice sul punto di andare completamente distrutta, prossima dunque a essere estromessa dalla situazione. Quello che esattamente viene a compiersi con il “ritorno” è l’avvio di un ciclo settimanale che ricomincia dal basso per andare a colmare successivamente, uno dopo l’altro, i sei gradi che compongono l’ordine ascendente delle linee, non a caso corrispondenti ad altrettanti giorni (384 per il totale degli esagrammi, pari alla somma algebrica di tutti i mutamenti che, insieme, completano un anno lunare di 13 mesi). Il rapporto numerico con il labirinto diventa anche più evidente dal punto di vista “calendariale”, tenendo inoltre conto che sono  appunto 7 le coppie di giovani e fanciulle destinate a entrarvi come vittime immolate al Minotauro. Ogni coppia appare quindi inviata al sacrificio come rappresentante di un giorno compiuto (se vogliamo, articolato nelle sue fasi giorno-notte), che il tempo-Minotauro “divora” per lasciare il posto alla giornata che ne segue, perpetuando così il proprio meccanismo all’infinito. E d’altronde l’idea di un “ritorno” della luce, della forza espansiva, luminosa, è senza dubbio coordinata con il solstizio d’inverno, corrispondente al giorno più breve dell’anno a partire dal quale le giornate tornano però ad allungarsi. E’ pieno di significato il fatto che questo momento sia tradizionalmente associato all’immagine di una porta: “porta” solstiziale, come del resto è una porta anche il solstizio d’estate; ma l’una da mettere in relazione agli dei e la seconda agli uomini, come un rapporto segnato da un destino di immortalità in un caso o rispettivamente di “mortalità” nell’altro. Duplicità caratteristica dello stesso labirinto che si rivela se si riesce o no a percorrerlo fino alla fine, scoprendo così la possibilità di farvi ritorno una volta entrati.
Il labirinto sembrerebbe avere il senso di una dimensione immersa nella corrente del fluire, condizione d’imprigionamento da cui sfuggire si direbbe impossibile, una volta che ci si trovi introdotti nel suo circuito che ha tutti i caratteri propri del tempo. Ciò di cui si tratta propriamente è tuttavia il ciclo vita-morte, processo temporale in cui si entra e che, dal momento in cui si comincia a farne parte, implica inevitabilmente il fatto di dover vivere ogni volta quel tipo di scambio che Eraclito indica come permutabilità tra mortali e immortali secondo il quale “gli uni muoiono la vita degli altri e gli altri vivono la morte dei primi”, ossia di andare incontro al proprio destino di distruzione come premessa per una successiva rinascita, significando questa al tempo stesso l’uscita da una condizione divina e l’accesso a quella mortale. Pertanto il labirinto, con la sua unica via d’uscita, rimanderebbe unicamente alla “porta degli uomini”, quella che presuppone appunto l’ingresso in una vita soltanto mortale? Se così appare è d’altra parte perché è il corso in cui la natura prettamente umana si ritrova presa dal vortice della temporalità a non prevedere possibilità di fuga, essendo appunto una via labirintica.  Se il tempo è metafora di una tale problematica è inevitabile che comporti un’alternanza dal punto di vista di chi lo vive, il quale, in analogia con lo stesso ciclo annuale, va incontro a fasi di aumento e di decrescita, di fioritura e di deperimento. Allora, tuttavia, c’è da chiedersi: la via d’uscita, la liberazione in che cosa consiste?
Anzitutto, se pure il labirinto reca impronta di una concezione temporale, appare tuttavia troppo involuto perché si possa pensare che si tratti di una semplice rappresentazione dell’anno: la complessità con cui ci si presenta è in qualche maniera in contrasto con l’idea di un percorso lineare che, sia pure ciclicamente, si riallaccia a sé stesso in una semplice infinita ripetizione. Quanto meno, se pure in qualche modo allude a una tale immagine, si può credere che, complicandola, arrivi ad introdurvi elementi di un’esperienza propria di qualcosa di indescrivibile altrimenti; per lo meno non coincidente con il punto di vista di un movimento in tondo destinato soltanto a ripetersi. Se il labirinto ha qualcosa a che vedere con la raffigurazione dell’anno, è forse solo perché vi si possono associare i momenti solstiziali ed equinoziali che ne caratterizzano lo svolgimento stagionale: se tali possono, appunto, considerarsi i quattro punti corrispondenti al modo in cui le linee, come segmenti di percorsi “spezzati”, ne compongono la figura. Ricadendo per così dire all’interno di essa, anche questi punti contribuiscono a determinare l’andamento tipico labirintico che presuppone svolte e rovesciamenti di direzione. E forse, tuttavia, il labirinto indica qualcosa di più che non ad una semplice rappresentazione: il suo scopo si direbbe piuttosto quello di “insegnare” il modo di orientarsi dall’interno dello schema per ritrovarvi la via da cui si è entrati; come un apprendimento di come riuscire a permanere nei meandri di un tempo che si auto-avvolge su sé stesso senza perdersi. Si può pensare che si tratti eminentemente, su questo piano, di un cammino “esperienziale” che mette in questione la possibilità di risolvere alcuni “nodi” cruciali connessi al modo di affrontare l’esistenza o almeno particolari lati critici che essa rivela. Se la prospettiva è quella indicata da Eraclito della permutabilità tra immortale e mortale, è chiaro che uomini e dei vengono a trovarsi su un medesimo piano, essendo in ogni caso, gli uni e gli altri, presi nel vortice del tempo. Entrambi devono soggiacere al fato che li porta a trasformarsi vivendosi reciprocamente in opposizione, ma che al contempo comporta la distruzione delle forme degli uni e degli altri in ciò che essi mutuano del corrispettivo modo opposto di esistere. In una rappresentazione ciclica dell’anno anche gli dei vanno incontro alle fasi di ascesa e di declino proprie del variare delle stagioni: anch’essi fanno il proprio ingresso nel tempo attraverso la corrispondente “porta” solstiziale ed escono quindi di “scena” al momento opportuno in cui gli aspetti stagionali, sul lato della “porta degli uomini”, appaiono per così dire rovesciati e la luce si avvia progressivamente a calare. L’uscita degli dei dal mondo conserva il significato di un “dramma”, che tuttavia coincide per gli uomini con l’inizio della loro peculiare possibilità di essere. Dal punto di vista di questi ultimi il “ritorno” periodico degli dei è garanzia di ritrovare la fusione di piani che li aveva portati a vivere un tempo in totale simbiosi: la promessa di tornare a identificarsi con la divinità in assenza della quale essi sembrano vivere soltanto di luce riflessa.  La regolarità del ripetersi del ciclo è appunto la garanzia di un tale “ritorno”. L’identificazione è tuttavia impossibile sul piano della vita di comuni mortali: per ricongiungersi alla divinità questi non possono far altro che morire. La morte, però, sia pure intesa come transito, passaggio a un altro tipo di esistenza, non li rassicura sul fatto che non debbano tornare a rivivere nella dimensione mortale: anzi, non è affatto nemmeno certo che comporti una qualche possibilità di rinascita. La via perché una simile eventualità possa semmai aver luogo è labirintica, ma si direbbe affacciarsi sull’alternativa di assumere nuovamente un destino mortale nel caso non si riesca a mettere capo alla divinità, in quanto per entrambi questi sbocchi è presupposto come schema preliminare il tempo come ciclo aperto su un duplice ingresso con prospettive divergenti. Qualunque ne sia l’esito, labirintico è però il fatto che è il tempo a comportare l’avvicendamento, il suo succedersi epocale come periodo finito, con un ritorno alle condizioni iniziali che porteranno nuovamente a mutare condizione: a tentare di risalire di nuovo fino agli dei o a riprendere una qualche forma condizionata di esistenza mortale. In questo senso il cammino labirintico sembrerebbe chiuso, prigioniero del corno del dilemma che si prospetta attraverso l’una oppure l’altra alternativa e questo perché in realtà il ricongiungersi del mortale alla divinità appare non soltanto non scontato, ma in qualche modo un risultato provvisorio, soltanto uno dei molteplici modi di manifestarsi imboccando un determinato cammino. Il labirinto è quindi forse piuttosto inteso a risolvere l’esclusione reciproca dei due termini del problema, come appunto espressione di un dilemma che conduce a vivere in termini di opposizione: probabilmente insegna a capire l’identità sostanziale al di là di un’apparente divergenza di forme che si manifestano l’una come il contrario dell’altra. E’ la questione, a cui si è accennato, dell’unità della figura che si percepisce nonostante il suo aspetto composito.
Tornando tuttavia al Tai-Chi l’idea-forza che esprime è quella di una rotazione assiale che ne alimenta il movimento ciclico: il perno è situato esattamente al centro, nel ganglio all’intersezione fra i due momenti yin e yang, occultato eppure virtualmente presente considerando il simbolo appunto in continuo “movimento” dinamico. Attraverso il rimescolarsi dello yin e dello yang se ne percepisce il dinamismo di tipo acquatico cui accenna lo stesso moto vorticoso del Tai-Chi: che si rivela però in riferimento a che cosa?


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